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sabato 5 febbraio 2011

Martina va alla guerra, di Antonella Manzione




Un libro, non è solo, il suo contenuto.
Così, quando prendo un libro, le mie dita ne scorrono le pagine, le mie mani lo afferrano ed il mio sguardo si sofferma sulle immagini.
L'immagine di copertina, forse, ritrae Martina, la bambina coraggiosa, che decide di combattere la sua guerra e lo fa fin dalla sua infanzia, cavalcando, statuariamente, il suo immaginario cavallino, mentre, sullo sfondo, lontano, il paesello e la sua gente, rimane estraneo a questa solitaria battaglia.
Nel risvolto della copertina, quella che chiude definitivamente il libro, chissà, c'è una Martina ormai grande, cresciuta e dallo sguardo sereno e dai capelli al vento...ed ancora, sullo sfondo, un frammento di costa che si tuffa nel mare.
Il paese, la terra e la sua gente, spesso, resta distante dal campo di battaglia ed il coraggioso combattente resta da solo, isolato, dal mondo intero per cui è fiero di combattere.
Posso pensare che Martina non è una persona, se non tante persone: tutte quelle persone - vittime o carnefici, in ragione del frammento di storia nel quale si scatta la fotografia - che decidono di lottare, per vincere la loro guerra.
Una guerra di conquista, di vittoria, di risalita, inevitabilmente segnata dal sangue.
Non a caso, questo romanzo si colloca nella collana editoriale "Le ragioni dell'occidente", ove si pretende di affrontare le problematiche che stanno incendiando il mondo moderno.
Non è finito il tempo in cui si combatteva per conquistare un territorio inesplorato o per togliere quello occupato, all'ultimo occupante. Per diverse motivazioni, per diverse ambizioni, per diversi scopi, per diversi ideali...alla ricerca di quella giustizia che gli uomini hanno inventato, catalogato, organizzato secondo propri modelli mentali e culturali.
Ci sono ragioni vere a giustificare una guerra, questa guerra, la guerra che combattiamo giornalmente, noi occidentali?
C'è davvero la necessità di pensare ad un campo di battaglia, come un luogo dell'anima, dove il conflitto può essere superato con la ragione dl più forte?
Può davvero, un giudice, ridare dignità ad un corpo martoriato dall'ingiustizia?
O forse, la mente che alberga in quel corpo, può provare a cercare giustizia nelle proprie ragioni, affidando al giudice il solo compito di valutare ciò che di più giusto serve alla società che ha costruito le sue regole?
Non so se questo romanzo può essere davvero inteso come una toccante variazione narrativa sul tema del mobbing, quando, ancora, questo così delicato tema di rapporti umani è così poco conosciuto e valutato dal nostro sistema giustiziale.
Piuttosto, ritengo che questo romanzo sofferto, tratta del dolore che aggredisce chiunque muove la competizione sociale, fino a dimenticare che i competitori altro non sono che persone, esseri umani e quindi, animali.
In queste righe scritte "col sangue", ogni singola pagina è una meditazione sui rapporti familiari e sociali, sui condizionamenti che la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, l'organizzazione sociale e giustiziale, comporta.
Pagine ricche di immagini fatte di parole e di parole fatte di immagini, di aforismi da meditare e trascrivere, di nomi e personaggi che trovi nelle viuzze di ogni piccolo centro...forse perché, semplicemente, si parla della vita e del bisogno di distaccarsi, prima o poi, da tutto ciò che ti blocca pesantemente al suolo e non ti permette di liberarti da ogni inutile fardello.
Un libro, il cui filo conduttore è l'amore filiale.
Quel figlio che talvolta, in questa società del "fare", si tende a dimenticare o a consegnare ad altri, per preoccuparci soltanto del suo avvenire economico (forse, solo una scusa, per governare il nostro senso di colpa nel lasciarlo solo a se stesso e noi, a dedicarci, anima e corpo, ai nostri affari professionali), ma così poco dei suoi bisogni e delle sue difficoltà di infante, bambino, adolescente e quindi, uomo: vittima tra le vittime.
Ma quell'amore filiale che dura e perdura, per tutto lo svolgersi del racconto, quasi a martellare la coscienza della sua protagonista, sempre più consapevole dell'inutilità delle sue innumerevoli attività che tolgono tempo a sua figlia.
Un finale pacato, semplice e distratto dalla globale complessità di un testo accattivante e comprensibilissimo, fin nelle più piccole sfumature.
La chiusura di una storia complicata, la storia comune a molti di coloro i quali amano interrogarsi sulle vicende del proprio esistere, si confonde con l'ingresso trionfante e preoccupato della forza-debole dell'amore.
Sol per questo vale la pena lottare e combattere la buona battaglia, vincendo comunque la nostra guerra, ancorché restando soli a godere della libertà che ci è data dall'amore e da chi ci ama davvero, per quello che siamo e non per quello che costruiamo.

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